mercoledì 9 novembre 2011

Commento alle letture della Domenica

13 novembre 2011 XXXIII DOMENICA DEL T. O. (ANNO A) Colore liturgico: Verde

Lavorare per dare frutto nel Regno di Dio: in questa frase si condensa la liturgia di questa domenica. Lavorare per fare il bene nel timore di Dio, come la donna buona e attiva del libro dei Proverbi (prima lettura). Il salmo presenta l'intima gioia famigliare concessa da Dio all'uomo che lo teme e cammina nelle sue vie. Lavorare, non dormire, poiché siamo figli del giorno e della luce, (tempo in cui si può lavorare), e non della notte ne delle tenebre (seconda lettura).

Far fruttificare i talenti ricevuti, qualunque ne sia la quantità, per realizzare l'incarico del quale ci si chiederà conto poi (vangelo).

PRIMA LETTURA (Pr 31,10-13.19-20.30-31)
La donna perfetta lavora volentieri con le sue mani.

Dal libro dei Proverbi

Una donna forte chi potrà trovarla?
Ben superiore alle perle è il suo valore.
In lei confida il cuore del marito
e non verrà a mancargli il profitto.
Gli dà felicità e non dispiacere
per tutti i giorni della sua vita.
Si procura lana e lino
e li lavora volentieri con le mani.
Stende la sua mano alla conocchia
e le sue dita tengono il fuso.
Apre le sue palme al misero,
stende la mano al povero.
Illusorio è il fascino e fugace la bellezza,
ma la donna che teme Dio è da lodare.
Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani
e le sue opere la lodino alle porte della città.
Parola di Dio

Il libro dei Proverbi è un libro “sapienzale” che elenca una lunga serie di consigli per chi vuole seriamente imparare a vivere onestamente, con intelligenza, con “sapienza”.

Il proverbio era un modo per trasmettere di generazione in generazione la saggezza acquistata con l'esperienza. Ma, nel nostro libro, non si tratta solo di sapienza umana, perché la conoscenza delle leggi della vita non è separata dalla fede in Dio. Infatti, nei proverbi di origine più antica, proprio il rispetto dell'autorità di Dio viene considerato il punto di partenza di ogni sapienza; in quelli più recenti la sapienza è vista come la strada che conduce a Dio.

Il prologo del libro (1, 1-7) attribuisce tutta la raccolta a Salomone, perché questo re era considerato il sapiente per eccellenza.

Il libro è una raccolta di proverbi e insegnamenti di genere molto vario e si può dividere in tre parti:
La prima parte (capitoli 1-9) è come una lunga introduzione nella quale si spiega il valore e l'importanza della sapienza, più volte personificata in una figura femminile e, nel poemetto che ci dà la chiave di lettura di tutta la raccolta è presentata come un modo di essere di Dio stesso.

La seconda parte (capitoli 10-29) comprende lunghe serie di proverbi: i proverbi, molto antichi, di Salomone e di altri sapienti del tempo.

La terza parte (capitoli 30-31) è composta di quattro pezzi indipendenti, due dei quali sono il frutto dell'attività di sapienti non Israeliti.

Il testo di Proverbi non descrive solamente il tipo di donna che il sapiente, al termine del percorso di formazione e studio, delinea per i suoi allievi come moglie ideale, ma ci fa cogliere quella figura femminile, nella sua valenza simbolica, per cui designa a un tempo la sapienza e il sapiente, ovvero, il dono e il frutto che tale dono suscita nell’uomo. Al centro del ritratto della donna forte vi è la responsabilità. Responsabilità che si configura, tra l’altro, come affidabilità , laboriosità, vigilanza e generosità. La responsabilità cristiana è coscienza del dono ricevuto e fedeltà ad esso. Anzi, più radicalmente, fedeltà al Donatore.

Tutta l’opera di Dio verso di noi è vista come opera d’amore di un padre che guida suo figlio.

SALMO RESPONSORIALE (Sal 127)


Rit: Beato chi teme il Signore.

Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Della fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.

La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.

Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
tutti i giorni della tua vita!

Il salmo presenta l'intima gioia famigliare concessa da Dio all'uomo che lo teme e cammina nelle sue vie. Non è qui il timor servile, cioè il timore di incorrere nella punizione che ha il servo di fronte al padrone, ma è il timore che un figlio deve avere verso un Padre buono. Il timore di Dio è principio di sapienza, cioè di conoscenza della parola di Dio ed impegno a testimoniarla nella vita di tutti i giorni. Vivendo così, il tuo lavoro avrà buon esito.

“Nell'intimità della casa”, avrà gioia dalla sposa, presentata nella bella immagine di una vite feconda; feconda di gioia, di vivacità, di operosità e di affetto. A ciò si aggiunge la gioia data dai figli presentati come virgulto d'ulivo attorno alla mensa.

Il salmo presenta un'invocazione di benedizione sull'uomo giusto: “Ti benedica il Signore da Sion...”, dove Sion è il monte simbolo della stabilità delle promesse di Dio.

Veramente è giunta a noi la benedizione di Dio da Sion nel sacrifico redentore del Figlio.

Tale benedizione è per tutti i popoli, e ha costituito la Chiesa, chiamata ad estendersi su tutta la terra per l'avvento globale della civiltà dell'amore, che è la Gerusalemme messianica, la Gerusalemme senza le mura .

SECONDA LETTURA (1Ts 5,1-6)
Non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési

Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire.
Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.
Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.
Parola di Dio

Paolo ha appena trattato il tema del ritorno imminente del Signore (cfr. 4,13-18). In questo testo egli si riaggancia a questo insegnamento per dare una direttiva pratica circa l’atteggiamento da assumere nel periodo dell’attesa.

Anzitutto egli, alludendo forse al desiderio proprio degli apocalittici di conoscere il momento preciso della fine, dichiara che a questo proposito non ha nulla da aggiungere a quello che ha già spiegato oralmente (v. 1). Egli si limita quindi a ripetere brevemente il suo insegnamento, che coincide con quello della chiesa primitiva: il giorno del Signore verrà in modo inatteso, come un ladro che sceglie la notte per compiere i suoi crimini. Proprio quando diranno «Pace e sicurezza», cioè si sentiranno perfettamente sicuri, quelli che non si sono preparati saranno colti improvvisamente da una rovina senza scampo, come la donna incinta che è colta dalle doglie del parto quando meno se l’aspetta.

Rivolgendosi poi nuovamente ai destinatari, Paolo li rincuora dicendo che ciò a loro non può capitare perché non sono «nelle tenebre» (v. 4). Essi infatti sono «figli della luce e figli del giorno». La vocazione cristiana li ha sottratti al mondo tenebroso dell’ignoranza e dell’errore e li ha collocati nella nuova situazione luminosa di apertura alla salvezza (v. 5). Il dualismo antitetico luce-tenebra, cioè bene o salvezza e male o perdizione, conosciuto già nell’ambiente giudaico di Qumran, viene messo in parallelismo con quello corrispondente di giorno-notte. I tessalonicesi si trovano dunque in una situazione privilegiata; ciò non toglie che anche per loro è necessario vigilare. Paolo li esorta a non dormire come gli altri, ma a restare svegli e sobri (v. 6). Ciò che essi già sono, per un dono speciale di Dio, deve esser mantenuto vivo nella vita quotidiana mediante un impegno costante. Il dono gratuito di Dio non esclude, anzi esige continuamente la collaborazione umana.

Il tema della vigilanza assume un ruolo molto importante nella prospettiva della seconda venuta di Gesù. Essa non consiste però in uno sforzo individualistico di perfezione, ma in un impegno costante perché le realtà di questo mondo assumano già fin d’ora i contorni del regno di Dio. Perciò la vigilanza si esprime soprattutto nei campi della vita politica, sociale ed economica, dove il credente deve operare non in conformità con la mentalità di questo mondo ma in sintonia con i valori evangelici. Essere figli della luce significa in ultima analisi saper dare un senso alla propria vita, uscendo dalle tenebre del proprio egoismo personale. In questo contesto ha molta importanza la preghiera, vista come il mezzo per eccellenza con cui il credente ricupera ogni giorno il senso della sua vita e il rapporto con gli altri.

VANGELO (Mt 25,14-30)
Sei stato fedele nel poco, prendi parte alla gioia del tuo padrone.

+ Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.

Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.

Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».
Parola del Signore.

La parabola dei talenti parla della venuta di Gesù per il giudizio universale. Quando ritornerà, egli esigerà di sapere da noi come abbiamo usato il nostro tempo, cosa abbiamo fatto della nostra vita e dei talenti che abbiamo ricevuto, cioè delle nostre capacità. Il premio per il buon uso sarà la partecipazione alla gioia del Signore, cioè al banchetto eterno. La parabola racchiude un insegnamento fondamentale: Dio non misurerà né conterà i nostri acquisti, le nostre realizzazioni. Non ci chiederà se abbiamo compiuto delle prodezze ammirate dal mondo, perché ciò non dipende da noi, ma è in parte condizionato dai talenti che abbiamo ricevuto. Vengono tenute in conto soltanto la fedeltà, l’assiduità e la carità con le quali noi avremo fatto fronte ai nostri doveri, anche se i più umili e i più ordinari. Il terzo servitore, “malvagio e infingardo” ha una falsa immagine del padrone (di Dio). Il peggio è che non lo ama. La paura nei confronti del padrone l’ha paralizzato ed ha agito in modo maldestro, senza assumersi nessun rischio. Così ha sotterrato il suo talento. Dio si aspetta da noi una risposta gioiosa, un impegno che proviene dall’amore e dalla nostra prontezza ad assumere rischi e ad affrontare difficoltà. I talenti possono significare le capacità naturali, i doni e i carismi ricevuti dallo Spirito Santo, ma anche il Vangelo, la rivelazione, e la salvezza che Cristo ha trasmesso alla Chiesa. Tutti i credenti hanno il dovere di ritrasmettere questi doni, a parole e a fatti.

Il Signore dunque verrà a chiederci che uso abbiamo fatto dei talenti che Egli ha messo nelle nostre mani. Ma quali sono questi talenti che dobbiamo moltiplicare e alla fine restituire? La nostra vita è il primo e più prezioso talento che il Signore ci ha dato. La nostra vita è un dono fatto per gli altri. A cominciare da coloro che il Signore ci ha messo vicino, come compagni di viaggio. Saremo quindi misurati su quanto la nostra vita avrà arricchito la nostra sposa, il nostro sposo, i nostri figli, i nostri amici, i nostri compagni di lavoro. Ognuno di loro è una occasione per capitalizzare il nostro talento, ognuno di loro è misura della nostra capacità di donarci. Il nostro tempo, la nostra volontà, la nostra fedeltà, la nostra progettualità, questi i talenti ricevuti e che siamo chiamati a mettere a frutto. La nostra stessa libertà donata per amore.

La grettezza e la meschinità non sono ammesse. Non possiamo avere paura di perderci se ci consumiamo per gli altri, al contrario nell’ottica di Dio perdersi è il solo guadagno. Chi sotterra il talento è colui che ha paura. Paura di fare il primo passo, paura di rinunciare a se stesso e alle proprie abitudini, paura di non essere ricambiato, paura di perder tempo, paura dell’ingratitudine, paura di non realizzare i propri obiettivi che non prevedono, se non marginalmente, la felicità degli altri. In fondo è la paura di Adamo, che non si fida di Dio e sotterra il proprio talento sotto l’illusione diabolica di poter decidere da solo quel che è bene e quel che è male. E’ lo stesso tragico errore del servo infedele che pur sapendo perfettamente qual è la volontà del padrone ha paura di sbagliare e sotterra il talento, sotterrando se stesso. E’ splendido notare lo stato d’animo dei protagonisti della parabola. I servi fedeli sono tutti contenti, tutti soddisfatti del loro lavoro, della loro esistenza. Prima ancora dell’arrivo del padrone sono sereni, felici di aver portato frutto ciascuno secondo le proprie possibilità. Sono soddisfatti di se stessi, potremmo dire orgogliosi per aver svolto con il massimo impegno il compito affidato. Il servo malvagio ha invece vissuto sempre di rimessa, in difesa, nella paura, potremmo dire che è paralizzato dalla paura, e questo lo ha reso solo ed infelice. Sorge allora la domanda: ma perché il padrone è così duro con il servo pauroso. In fondo la sua unica colpa è stata quella di non avere il coraggio di provare a mettere a frutto il suo talento. Sono proprio così riprovevoli tutti quegli uomini che vivono chiusi in se stessi, anime grigie che si lasciano vivere avvolte nella meschinità dei propri interessi? Perché il Signore punisce così duramente la mancanza di coraggio?

Il punto centrale è la consapevolezza: tutti e tre i servi conoscono bene il padrone. Tanto che il servo infingardo dice: “ so che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”. La colpa grave origina dunque dalla conoscenza della volontà di Dio, dalla sua frequentazione, dall’impatto col suo amore infinito. Pertanto, chi, nonostante l’incontro con Gesù, non cambia il suo atteggiamento esistenziale si perde inesorabilmente. In fondo come Giuda che, nonostante avesse vissuto con il Signore condividendone tutto perfino l’Eucarestia, non riesce a fare lo scatto di qualità, non riesce a convertirsi. Forse chissà avrà anche trascorso periodi di slancio e convinzione, ma alla fine la propria visione delle cose ha avuto il sopravvento su quella inserita nella prospettiva divina. In fondo anche Giuda ha paura, paura di fidarsi di Gesù, paura di un salto nel buio, paura di dover rinunciare alle proprie convinzioni. Di rinunciare alla propria visione degli avvenimenti e degli uomini. Ha paura fino alla fine, quando il terrore di non poter essere perdonato e di non poter perdonarsi lo conduce alla disperazione e al suicidio.

Che grande responsabilità abbiamo noi che abbiamo conosciuto Dio! Che lo abbiamo riconosciuto in Gesù. Che ci accostiamo con cuore sincero all’Eucarestia. Il Signore ci chiede oggi di mettere in gioco il nostro piccolo ma prezioso talento, la nostra vita, senza paura, confidando serenamente e fiduciosamente in Lui. Ci chiede di condividere tutto per poter moltiplicare quanto Egli ci ha donato gratuitamente. Non siamo al mondo per caso e non siamo al mondo per noi stessi, Il Signore ci ha donato la vita per farne un dono all’umanità. Spesso viviamo una fede imborghesita, fatta di buone maniere e buoni sentimenti ma senza slancio, senza entusiasmo, senza capacità di trascinare altri. Eppure la fede è l’altro talento prezioso che abbiamo ricevuto per condividerlo con i nostri amici, i nostri famigliari, i nostri colleghi. Chi darà la speranza al mondo se non lo faranno i cristiani? Chi darà la fiducia nella vita, nell’uomo, nella Provvidenza che non abbandona mai nessuno? Se noi cristiani sotterriamo la fede con essa sotterriamo la carità e la speranza. E quando il Signore si accorgerà che per paura, per le nostre paure, non abbiamo fatto circolare la fede, la carità e la speranza tra i nostri fratelli, prenderà semplicemente atto che non abbiamo mai vissuto veramente.