venerdì 4 novembre 2011

Commento alle letture della Domenica


6 Novembre 2011 XXXII DOMENICA DEL T. O. (ANNO A) Colore liturgico: Verde

La liturgia odierna della Parola è l'invito che Cristo, lo Sposo, ci fa di sedere a mensa con Lui, per nutrirci della sua sapienza, la Parola e il Pane e il Vino della Vita. La nostra attesa, ardente d'amore e desiderio, è la chiave che apre la porta del banchetto di nozze. Il nostro oggi diventa tempo "pieno" della sua presenza e storia di salvezza. La prima lettura fa un elogio della sapienza, e sottolinea che "colui che la ricerca la trova". Dunque, se vogliamo, possiamo trovarla. Questa saggezza non consiste effettivamente in un gran cumulo di dati scientifici, ma è piuttosto una "sapientia cordis". È una conoscenza profonda, è esperienza di Dio e del suo amore; una conoscenza chiara di se stessi e degli uomini, fratelli in Cristo. Mentre l'anno liturgico si avvia a conclusione, ecco profilarsi all'orizzonte l'attesa gioiosa di un incontro: sono le dieci vergini in attesa dello Sposo, è il cristiano di fronte a ciò che gli si schiude dinanzi oltre la morte, è l'uomo che vede la sapienza proporsi quale guida illuminata della vita. La Sapienza, che è immagine del Cristo, è "seduta alla nostra porta". L'Apocalisse fa dire al Signore: "Ecco, io sto alla porta e busso". Un Dio che attende sulla soglia della nostra casa, che non forza la porta per entrare, ma che pure è lì "contemplabile" da chi lo ama, "trovabile" da chi lo cerca. No, non è poesia, né sono esperienze riservate ai "mistici"! È la stupenda realtà che ci accompagna lungo i giorni. Quando mi sveglio al mattino, mentre svolgo le mie consuete occupazioni, in chiesa, a casa per la strada: ovunque, in ogni istante e in ogni situazione io so che Egli è là, in silenziosa e trepida attesa. Basta che mi decida a schiudergli la porta ed "Egli entrerà e cenerà con me ed io con lui".

PRIMA LETTURA (Sap 6,12-16) La sapienza si lascia trovare da quelli che la cercano. Dal libro della Sapienza La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano. Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta. Riflettere su di lei, infatti, è intelligenza perfetta, chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni; poiché lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei, appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro incontro. Parola di Dio

Il Libro della Sapienza o Sapienza di Salomone o semplicemente Sapienza è un testo contenuto nella Bibbia cristiana, ma non accolto nella Bibbia ebraica (Tanakh). Come gli altri libri deuterocanonici è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo. È scritto in greco e la sua redazione è ipotizzata ad Alessandria d'Egitto tra il 30 a.C. al 50 d.C., ad opera di un autore ignoto o dalla successiva tradizione cristiana attribuito al saggio re Salomone. È composto da 19 capitoli con vari detti di genere sapienziale, con in particolare l'esaltazione della Sapienza divina personificata. Tra i contributi principali del libro ci sono la fede nell'immortalità dell'anima e nell'eternità della Sapienza divina, nonché la presunta predizione delle sofferenze di Gesù. La prima lettura (Sap 6,12-16) ci presenta un vero e proprio poema d'amore, che canta il vicendevole cercarsi e l'instancabile frequentarsi da parte di due innamorati: la sapienza e chi la cerca. Riecheggiando i tratti e i toni del Cantico dei cantici, tesse l'elogio del desiderio della sapienza, che nel contesto ampio dei libri sapienziali si può definire come l'arte del sapere ben dirigere la vita e dunque la capacità di discernere tra ciò che è vero e falso, tra ciò che dà vita e ciò che porta alla morte, tra il bene e il male. Da Dio stesso trae la sua origine e ne possiede le caratteristiche (Sap 7,22 ss.). Seguendo la tradizione sapienziale (Pr 8,1-9; Sir 24,1-22), l'autore descrive la sapienza in termini personali, paragonandola a una donna di bellezza radiosa, non soggetta a invecchiamento, che si lascia trovare da chi la ama e la ricerca: essa colloca se stessa e l'uomo su un piano di ricerca amante, di desiderio e relazione personale. In questa relazione dischiude la propria identità, mostra il suo volto e i suoi tratti a chi la accosta con desiderio. E nel rivelarsi svela i suoi segreti, la sua sapienza, perché è lei stessa che desidera lasciarsi trovare proprio per comunicare le sue ricchezze: apre l'accesso a quella conoscenza delle cose e della vita che le è proprio e nel contatto con lei si acquisiscono i suoi tratti e si assimila il suo stesso modo di vedere, sapere, sentire e decidere. Si entra cioè in un itinerario che conduce alla conoscenza e all'unione d'amore che trasforma e dà gioia e vita. L'immagine più usata dai libri sapienziali per descrivere questo incontro trasformante, che immette nella gioia della vita, è il banchetto conviviale, che la sapienza imbandisce per i suoi amici. La saggezza si potrebbe definire come la capacità di giudicare ed operare in modo conforme alla verità e alla volontà di Dio. La Sacra Scrittura presenta l'uomo saggio come colui che ama e cerca la verità (cf. Sir 14, 20-27). La sapienza non è, dunque, la somma di molte conoscenze scientifiche, per ampie, precise e diversificate che siano. Piuttosto, saggio è colui che fa propri i pensieri di Dio e i desideri della sua volontà. Saggio è colui che possiede una conoscenza, una esperienza dell'amore di Dio e, alla luce di questo amore, giudica tutto l'accadere umano; giudica la propria vita e le proprie decisioni, e opera di conseguenza. Al margine della verità e della ricerca sincera della verità, non c'è saggezza possibile. Infatti, si dà il caso di persone illetterate, povere di conoscenze scientifiche, perfino analfabete che sono però sagge perché conoscono, hanno esperienza di Dio e cercano sinceramente la verità. Ricordiamo santa Caterina di Siena, che manteneva corrispondenza epistolare col Papa e i grandi della sua epoca, e non sapeva scrivere. Al contrario, vi sono persone ricche di risorse intellettuali e di conoscenze scientifiche che, tuttavia, non possiedono la sapienza del cuore. Non conoscono, né amano Dio e la sua volontà.


SALMO RESPONSORIALE (Sal 62)
Rit: Ha sete di te, Signore, l’anima mia.

O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua. Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria. Poiché il tuo amore vale più della vita, le mie labbra canteranno la tua lode. Così ti benedirò per tutta la vita: nel tuo nome alzerò le mie mani. Come saziato dai cibi migliori, con labbra gioiose ti loderà la mia bocca. Quando nel mio letto di te mi ricordo e penso a te nelle veglie notturne, a te che sei stato il mio aiuto, esulto di gioia all’ombra delle tue ali.

Il salmo presenta un pio giudeo, che fin dal primissimo mattino si pone in orazione. Egli cerca Dio, perché gli si è rivelato a lui per mezzo del dono della fede e delle Scritture, e ora cerca l’unione con lui, l’intima conoscenza di lui, in un “cercare” in cui il “trovare” spinge ancor più a cercare. L’orante è presentato come un assetato in mezzo ad un deserto. Ma l’assetato del salmo sa dov’è la fonte, non è disorientato; sa che la fonte della pace e della gioia è Dio: Dio stesso è questa fonte. L’orante ha un punto di riferimento: il tempio; e così vi si reca per trarre ristoro nella contemplazione Dio. L’orante cerca Dio, ama Dio, non tanto i benefici di Dio. Ama lui, e lo dichiara poiché dice che la comunione con lui “vale più della vita”. Questa dolce consapevolezza è la molla della sua lode. Egli, ritornato dal tempio alla sua dimora, probabilmente distante da Gerusalemme, ha come pensiero dolce e vivo Dio, e così, quando il sonno è assente, non si agita, ma pensa a Dio e cerca Dio. Solo i mistici e coloro che tutto confidano in Dio sanno unire gioia e sofferenza, tribolazione e pace, perché il centro della loro esistenza si trova in Dio. Da lui attingono felicità, pace e la forza di fronteggiare la sofferenza (la beatitudine). La pena più profonda dell'anima umana è il desiderio ardente di Dio, dell'infinito, della fonte ultima della vita e dell'amore. Il dolore intenso e profondo è avvertito da ognuno, più o meno consapevolmente; e la vita di chiunque è indirizzata verso il bene o il male secondo come reagiscono alla sofferenza. Purtroppo oggi, nella società del consumismo, molte, troppe persone, anche tra coloro che si professano cristiani, non la identificano e anzi soffocano la sete d'infinito, adeguandosi ai piaceri materiali o alla ricerca del successo, del potere, o alla degenerazione di sensazioni insolite che conducono inevitabilmente alla violenza; tuttavia, nulla di tutto ciò soddisfa e riempie il vuoto interiore, quella sete del trascendente che l'uomo non sa placare. Al contrario, quando l'orante si abbandona a Dio in preghiera, lasciamo Dio libero di manifestare in modo personale il suo amore, la sua attenzione, la sua protezione e,allora, inizia a spegnersi quella sete comprendendo che la vita può essere donata in cambio di un unico istante di quel puro e santo amore.

SECONDA LETTURA (1Ts 4,13-18)

Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési
Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti. Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole. Parola di Dio.

La forte tensione che attraversa la prima comunità cristiana, tutta protesa nella certezza di un imminente ritorno del Signore provoca addirittura, nella comunità di Tessalonica, l'insorgere di un problema legato a questa attesa: ma quelli di noi che sono già morti come potranno incontrare Gesù al suo arrivo? Non saranno sfavoriti rispetto a noi che ancora saremo in vita? La seconda lettura (1 Ts 4,13-18) ci offre la risposta a questo interrogativo. Paolo afferma che l'unica consolazione che deve muovere e sostenere la fede e la vita presente è la fede nel Signore morto e risorto: non c'è nessuna afflizione per coloro che credono e sperano nel Signore. Comprendiamo chiaramente che l'unico pensiero che abita Paolo e della comunità di Tessalonica è la fede in Gesù morto e risorto e l'attesa della sua venuta definitiva. San Paolo, nella sua lettera ai Tessalonicesi, parla loro dell'importanza di mantenere la fede, e compatisce coloro che muoiono come se non ci fosse un'altra speranza. Tutti coloro che credono in Cristo e appartengono a Cristo, "staranno sempre col Signore". Per questa ragione, il cristiano deve vivere consolato dalla gioiosa e profonda speranza di Cristo Gesù.

VANGELO (Mt 25,1-13)
Ecco lo sposo! Andategli incontro!

+ Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».
Parola del Signore

Il testo evangelico odierno, la ben nota parabola delle dieci vergini, ci conduce nell'imminenza di un banchetto. In poche battute l'evangelista dipinge la situazione, chiara agli ascoltatori del tempo, un po' meno a noi: lo sposo viene a prendere la sposa, che aspetta con le compagne nella casa paterna, per portarla, in corteo nuziale, alla propria dimora e dare così il via ai festeggiamenti e al banchetto di nozze. Il Vangelo ci parla di quell'altro misteriosissimo ultimo giorno della vita di ognuno di noi, anche quello sconosciutissimo a tutti e noto solo a Dio. E’ l'unica cosa di cui siamo certi che capiterà a tutti. Tante altre cose possono capitarci come possono anche non capitarci nella vita, ma su quella non abbiamo dubbi! Il Signore verrà! Forse una sera, forse una notte, forse in un radioso mattino estivo o forse in un freddo giorno invernale. E per questo ci invita alla vigilanza, perché quel giorno non sorga all'improvviso e ci trovi impreparati. "Vegliate dunque perché non sapete né il giorno, né l'ora". Teniamo le nostre lampade accese con l'olio della fede e della carità per non dover andare poi dai venditori a comprarne come pensavano di fare le dieci vergini stolte. Quest’olio non si acquista, ma si ottiene unicamente in ginocchio con l'umile supplica e l'ardente preghiera al Dio Altissimo. Quel misteriosissimo giorno che i primi cristiani attendevano già come imminente e che noi, più di duemila anni dopo, rischiamo di non attendere più per niente. Chiediamo la grazia di svegliarci da questo pericoloso letargo perché se non vedremo ancora quell'ultimo giorno, vedremo certamente il nostro ultimo giorno! L'obiettivo della nostra vita è mantenere la lampada accesa, cioè mantenere la confessione della fede nel nostro Salvatore, Gesù Cristo; mantenere la gioia della speranza; mantenere l'ardore della carità fino all'ultimo istante della nostra vita. Al contrario, esser stolti significa "andare incontro agli ultimi momenti della vita, senza essere convenientemente preparati", lasciando morire nel cuore l'amore vero. Quale è, ci si può domandare, quest'olio che manterrà accesa la nostra lampada per la venuta di Cristo? La risposta non può essere altro che "l'amore". L'amore ardente e generoso, che mantiene l'anima rivolta verso Dio e verso i nostri fratelli, gli uomini. L'amore, che è donazione di se stessi. L'amore, che consiste nello scoprire in ogni fratello l'immagine stessa di Cristo. È l'amore che trionfa sul peccato, l'egoismo e la superbia. È l'amore la "più grande di tutte le virtù". Se desideri essere pronto per la venuta del Signore, disponi la tua anima ad amare, a "rimanere nell'amore" (cf. Gv 15,9), perché al "tramonto della vita saremo giudicati in base all'amore". Infatti, dice la Scrittura che "chi non ama, rimane nella morte" (cf. Gv 3,14). Anche la parabola ci mostra che questa saggia preparazione all'arrivo dello sposo è questione personale. Ognuno deve prepararsi, perché quando arrivi lo sposo non sarà possibile scambiarsi le ampolle o travasare l'olio dall'una all'altra. Ognuno è responsabile di se stesso, e dovrà continuare a preparare la sua anima all'incontro definitivo con Dio. Non è poca la responsabilità che ci è affidata. Siamo stati creati da Dio per amore, e ci dirigiamo incessantemente verso di Lui. Sarebbe insensato vivere come se Dio non esistesse, come se la nostra vita non stesse snodandosi minuto per minuto, come se dopo la morte non ci fosse il banchetto celeste e la gloria eterna di Dio. Una delle tentazioni più forti dell'uomo moderno, e anche del cristiano, è quella di ridurre le proprie speranze unicamente a ciò che è terreno e mondano. Nei primi anni dell'era cristiana, il battezzato era detto anche "illuminato": colui che era stato illuminato dalla luce di Cristo. Colui che era passato dalle tenebre del peccato alla luce meravigliosa dell'amore di Dio. Il cristiano era visto come una lampada la cui luce doveva illuminare tutti i membri della famiglia. Anche noi abbiamo l'obbligo di vivere con la lampada accesa. Abbiamo la grande opportunità di illuminare questo mondo, che si dibatte tra le tenebre. Abbiamo l'occasione di aiutare tanti nostri fratelli che non conoscono Cristo, o lo conoscono solo di nome, ma non hanno fatto esperienza del suo amore. Vivere con la lampada accesa significa: - Farsi dispensatore di bene nella propria umanità. Si tratta di essere luce e consolazione per tutti coloro che giacciono nelle tenebre della morte e del peccato. - Vivere un atteggiamento di servizio e donazione. Si tratta di superare l'individualismo, l'egoismo, la propria comodità. Davanti ai nostri occhi ci sono due opzioni: o vivere per noi stessi, consumando il nostro olio e conservare per noi la nostra luce, come lucciole; o vivere per Dio e per i nostri fratelli, gli uomini, irradiando la luce di Cristo. La prima opzione ci porterà alla tristezza perenne, la seconda alla felicità eterna. - Vivere di fede. Come san Paolo dobbiamo poter dire alla fine della vita: "ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona che il Signore mi ha riservato" (cf. 2 Tm 4-8-). Giudicare tutto secondo la verità. Non inganniamoci con i sofismi, con i ragionamenti umani. Cerchiamo la verità in tutto, siamo sinceri con noi stessi e con gli altri. Solo coloro che cercano la verità al di sopra di tutto sono pienamente liberi, e non c'è falsità in essi. Ricordiamo che non siamo noi quelli che costruiscono la verità, né decidiamo il bene e il male. Al di sopra di noi, c'è la legge eterna cui dobbiamo conformarci. Non dobbiamo perdere di vista che siamo creature e che dobbiamo umilmente sottometterci al nostro Creatore. "Il principio della scienza è il timor di Dio" (cf. Prov 1,7). Un uomo che vive senza l'orizzonte dell'eternità. Come se l'eternità non esistesse, e non stesse più, ogni momento, accanto a noi! Ravviviamo il nostro spirito, lasciamo da parte ogni stanchezza o pigrizia; manteniamo salda la confessione della fede, perché lo sposo sta per arrivare! Ritarda, ma giungerà. Controlliamo le nostre ampolle, esaminiamo le nostre anime e, se non c'è olio, se non c'è amore, non proseguiamo, mettiamoci all'opera, perché "al tramonto saremo giudicati sull'amore". Chiediamo a Maria Santissima, la vergine saggia per eccellenza, di riempire sempre le nostre lampade con l'olio della fede e della carità, di "vegliare sul nostro cammino e renderci innocenti e puri di cuore" in vista di quel grandioso e ultimo avvenimento della nostra vita.