venerdì 28 ottobre 2011

Commento alle letture di Domenica 30/10/11 ed 1 e 2 Novembre

30 Ottobre 2011 XXXI DOMENICA DEL T. O. (ANNO A) Colore liturgico: Verde
1 e 2 Novembre 2011 : Festa di tutti i Santi e Commemorazione dei Defunti
Le letture di questa domenica ci aiutano a rispondere alla domanda: quali sono le vie in Cristo per essere testimoni del Vangelo?
Nella prima lettura il profeta Malachia condanna non i grandi atti di tradimento, ma i piccoli gesti quotidiani, con cui, con furbizia, si inganna la fiducia del prossimo. Occorre dar gloria al Signore, insegnare la verità e la rettitudine morale, non usare parzialità nell'applicazione della legge, agire con trasparenza e pacificamente, sono questi alcuni dei richiami forti che il testo del Profeta pone alla nostra attenzione, perché ne facciamo tesoro tutti, perché ciò ci predispone a compiere cose più grandi.
Il salmo 130 mette in evidenza la paternità di Dio. In particolare fa emergere la profonda tenerezza di Dio con l'immagine della madre che tiene in braccio il suo bambino.
Nella seconda lettura san Paolo ci descrive quello che dovrebbe essere il comportamento del vero cristiano
Il vangelo (Mt 23, 1-12) riporta un severo giudizio di Gesù su chi ha il compito di essere guida, testimone dell'alleanza. Gesù mette in guardia dall'imitare il loro stile perché sono lontani da quanto annunciano. Dimenticando che Dio è il solo Padre, si fanno chiamare "padri"; così come "maestro", ignorando e contrapponendosi all'unico Maestro, Cristo stesso.


PRIMA LETTURA (Ml 1,14- 2,2.8-10)
Avete deviato dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento.

Dal libro del profeta Malachìa

Io sono un re grande – dice il Signore degli eserciti – e il mio nome è terribile fra le nazioni.
Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione.
Voi invece avete deviato dalla retta via
e siete stati d’inciampo a molti
con il vostro insegnamento;
avete distrutto l’alleanza di Levi,
dice il Signore degli eserciti.
Perciò anche io vi ho reso spregevoli
e abietti davanti a tutto il popolo,
perché non avete seguito le mie vie
e avete usato parzialità nel vostro insegnamento.
Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?
Parola di Dio



Malachia (Sofa, V secolo a.C.) è l'ultimo dei dodici profeti minori e per questo motivo gli ebrei lo chiamano il "Sigillo dei profeti". Le sue profezie sono riportate nell'omonimo libro biblico. Poche ed incerte le notizie della sua vita: apparteneva alla tribù di Zabulon e nacque a Sofa. Visse certamente dopo l'esilio babilonese (538 a.C.), durante la dominazione persiana.
Il libro di Malachia affronta problemi di natura morale relativi alla comunità ebraica, reduce dalla schiavitù in Babilonia. Il profeta rimprovera il popolo che si lamenta contro la Provvidenza di Dio, invitandolo a pentirsi del suo comportamento non riconoscente.
Egli mette in evidenza l' "elezione" d'Israele, che non è soltanto un privilegio onorifico di Dio, ma come ogni dono divino comporta degli obblighi.
Per questo rimprovera i sacerdoti che trascurano e offendono la dignità di JHWH e il culto a Lui dovuto.
Nella lotta al malcostume dilagante egli si manifesta intransigente: condanna i matrimoni misti, difende la indissolubilità del matrimonio.
Il libro termina con una visione escatologica in cui annuncia la venuta del messaggero di Dio, che farà una selezione dei buoni nel suo popolo; in questa profezia si può prefigurare la venuta di Giovanni Battista. Nel libro, inoltre, è molto presente il senso dell'immutabile giustizia di Dio e dell'universalità della vera religione.


Il Profeta Malachia dal quale è tratto il testo della Prima Lettura odierna riporta a chiare lettere ciò che deve fare una persona consacrata al Regno di Dio per seguire la retta via che ha tracciato il Signore.
Il testo è un richiamo deciso a coloro che per il loro ruolo dovrebbero essere maestri nella fede, innamorati di Dio, guide autentiche per la fedeltà all'alleanza. In realtà sono divenuti "spregevoli e abbietti davanti a tutto il popolo" perché hanno dimenticato la tenerezza di Dio e insistono solo sulla stabilità e il valore assoluto delle norme che nascono da tradizioni umane. Usano la religione come forma di comando sugli altri.



SALMO RESPONSORIALE (Sal 130)

Rit: Custodiscimi, Signore, nella pace.

Signore, non si esalta il mio cuore
né i miei occhi guardano in alto;
non vado cercando cose grandi
né meraviglie più alte di me.

Io invece resto quieto e sereno:
come un bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è in me l’anima mia.

Israele attenda il Signore,
da ora e per sempre.


Il salmo mette in evidenza la paternità di Dio, facendo eco alle parole della prima e terza lettura.
In particolare valorizza la profonda tenerezza di Dio l'immagine della madre che tiene in braccio il suo bambino. Un pargoletto che si sente così sicuro e difeso da addormentarsi sereno, per la profonda fiducia che avverte istintivamente.
Il salmista si sente, come un bambino svezzato in braccio ai genitori; e invita chi prega a provare gli stessi profondi sentimenti di tenerezza.
Infine incoraggia tutto il popolo eletto a sperare nel Signore, a confidare in chi non abbandona quanti accolgono il suo amor. Il popolo dovrebbe assomigliare a un bambino non si inorgoglisce e non prova superbia, perché scopre che questo amore è dono gratuito.



SECONDA LETTURA (1Ts 2,7-9.13)
Avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési

Fratelli, siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.
Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio.
Proprio per questo anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti.
Parola di Dio

Nella seconda lettura san Paolo ci descrive quello che dovrebbe essere il comportamento del vero cristiano, partendo dalla sua esperienza di incontro con Gesù, che gli fece capire che la vera chiamata del cristiano è diventare suo apostolo. Paolo, perfetto imitatore di Cristo, svolge un servizio materno, pronto a dare la vita per i suoi cristiani. La comunità cristiana è allora il luogo dove l'esperienza di Dio e l'esperienza della fraternità determinano e plasmano il modo di agire, di vivere, di relazionarsi reciprocamente, in un'atmosfera di famiglia.
In questo brano emerge la figura di Paolo completamente assorbito dall'attenzione e dalla cura nei confronti della comunità di Salonicco appena formata, la sua gioia non consiste nella soddisfazione umana che porta ad un certo successo, ma nel fatto che a Salonicco i credenti hanno incontrato il vero Dio, la cui Parola dà un senso pieno alla loro vita.
L'esempio di Paolo è eloquente e c'invita tutti a rivedere il nostro atteggiamento di servizio e le nostre responsabilità di fronte alla nostra famiglia, alla nostra comunità, alla nostra parrocchia. Ciò vale anche per i sacerdoti, che devono essere veri pastori del gregge loro affidato. Essi devono amare con sincerità le pecorelle assegnate alla loro sollecitudine.
Il sacerdote non è per se stesso, ma per le anime, era solito dire il Curato di Ars. Le anime devono costituire la sua massima aspirazione. Perciò, nel sacerdote non c'è posto per l' "ambizione carrieristica", la ricerca dei posti d'onore, della gloria personale. Quanto più umile è il sacerdote, tanto meglio rappresenta Dio. Senza che egli se ne renda conto, questa umiltà vince le resistenze dei suoi fedeli, e li conduce sulle vie della santità.
Il sacerdote è il pastore delle pecore: deve dare la vita per esse. E dare la vita è qualcosa di molto concreto: è predicare, è andare incontro, è visitare il malato, istruire l'ignorante, consigliare colui che dubita. Dare la vita, è affrontare la sfida della nuova evangelizzazione, è consumarsi ogni giorno, senza tregua, affinché nessuno si perda. Dare la vita è consumarsi e dedicarsi alle anime, senza cedere alla stanchezza o alle difficoltà.
Soprattutto, dare la vita è non perdere mai la speranza della conversione delle anime. I fedeli hanno il diritto di trovare nel proprio sacerdote l'uomo che li incoraggia a guardare al futuro con speranza. Egli, nonostante tutti i problemi odierni, continua ad essere il punto di riferimento morale ed il perno dell'istruzione religiosa.


VANGELO (Mt 23,1-12)
Dicono e non fanno.

+ Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito.
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente.
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo.
Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».
Parola del Signore


Il brano di Vangelo di Matteo di oggi è l'inizio dell'ultimo discorso pubblico di Gesù in cui rivolge una denuncia nei confronti dei responsabili della comunità giudaica, scribi e farisei. A prima vista pare che questo discorso non ci coinvolga direttamente. Questo non è vero, perché ognuno di noi è maestro/padre e allo stesso tempo discepolo/figlio, è capo e guida in famiglia, sul lavoro, nei vari ambienti della vita quotidiana. Allora l'ammonimento di Gesù è rivolto a ciascuno di noi.
Fariseo è ognuno di noi quando riduce il Vangelo all'apparire più che all'essere, al dire più che al fare, alla legalità più che alla moralità interiore, alle opere della legge più che alla fede che vivifica le opere, al compromesso accomodante più che alla testimonianza coraggiosa, alla glorificazione del proprio io più che alla gloria di Dio. Le parole di Gesù appaiono dure e polemiche, ma se colleghiamo questo discorso con il primo, quello della montagna, emerge un paragone tra l'ideale di vita del discepolo di Cristo e i comportamenti non corrispondenti a questo ideale, che sono più evidenti in coloro che sono ancora "sotto la Legge", come direbbe san Paolo. Di conseguenza questo percorso che ci propone Gesù vale sia per chi sta in cattedra, sia per chi sta nei banchi, sia per chi si trova ancora sulla soglia.
Anche noi possiamo ritrovarci nella condizione d'essere coloro che dicono e non fanno. Quante prediche agli altri, quante esortazioni e rimproveri ai figli o ai genitori, quando siamo noi i primi a non vivere quello che raccomandiamo! Siamo tutti fratelli, ci ammonisce Gesù, tutti salvati, tutti perdonati, e in questo popolo di salvati ognuno ha un ruolo, un compito, un ministero. Agli sposi cristiani Egli chiede d'essere segno dell'amore che Dio ha per l'umanità.
La vita non è susseguirsi insensato di dolore e sofferenza, di morte e di peccato. No! La vita è realmente servizio, dedizione, donazione sincera di sé agli altri. E quanto più alti siano i seggi di autorità che un uomo possieda, tanto più profondo e perentorio è il suo obbligo di servizio, ad esempio del Signore, che "non venne per esser servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti". Così, si scopre quale sia il vero cammino del cristiano: la via della mortificazione, la via che fa vincere il male con il bene, la via di chi soffre e sopporta tutte le contrarietà della vita con pazienza ed umiltà. Quanto diversa risulta la nostra vita, quando la misuriamo coi giusti parametri. Quando vediamo che la nostra esistenza è un dono che, allo stesso tempo, va donato perché dia frutto!
Che cosa significa, allora, essere cristiano?
Andare a Messa, battezzare i propri figli, partecipare ai sacramenti, fare la comunione a Pasqua, rispettare i comandamenti?
Si, ma soprattutto, essere cristiani vuol dire non tanto rispettare ciecamente delle formule o dei precetti, ma donare Cristo agli altri, mediante una vita cristiana onesta.
Questo è l’insegnamento di Gesù ed è così che deve vivere chi vuole essere cristiano.


1 Novembre 2011 Festa di tutti i Santi

La festa di oggi celebra il sogno di Dio, il Suo desiderio più grande: vedere nei suoi figli l'impronta della sua stessa immagine, la più vera, cioè la gioia senza fine.
Festeggiare tutti i santi è guardare coloro che già posseggono l’eredità della gloria eterna. Quelli che hanno voluto vivere della loro grazia di figli adottivi, che hanno lasciato che la misericordia del Padre vivificasse ogni istante della loro vita, ogni fibra del loro cuore. I santi contemplano il volto di Dio e gioiscono appieno di questa visione. Sono i fratelli maggiori che la Chiesa ci propone come modelli perché, peccatori come ognuno di noi, tutti hanno accettato di lasciarsi incontrare da Gesù, attraverso i loro desideri, le loro debolezze, le loro sofferenze, e anche le loro tristezze.
Questa beatitudine che dà loro il condividere in questo momento la vita stessa della Santa Trinità è un frutto di sovrabbondanza che il sangue di Cristo ha loro acquistato. Nonostante le notti, attraverso le purificazioni costanti che l’amore esige per essere vero amore, e a volte al di là di ogni speranza umana, tutti hanno voluto lasciarsi bruciare dall’amore e scomparire affinché Gesù fosse progressivamente tutto in loro. È Maria, la Regina di tutti i Santi, che li ha instancabilmente riportati a questa via di povertà, è al suo seguito che essi hanno imparato a ricevere tutto come un dono gratuito del Figlio; è con lei che essi vivono attualmente, nascosti nel segreto del Padre.

Le letture di questa festa ci aiutano a capire chi è veramente il cristiano.
Cristiano è chi porta il sigillo di Dio sulla fronte e indossa la bianca veste lavata nel sangue dell'Agnello (prima lettura). Cristiano è colui che è stato fatto figlio di Dio e vive con l'ardente speranza dell'incontro definitivo con il Padre (seconda lettura).
Cristiano è colui che vive lo spirito che anima le beatitudini pronunciate da Gesù nel gran discorso della montagna (vangelo).

Nella prima lettura san Giovanni ci presenta un'immensa festa popolare in cui si acclama Dio e ci si ritrova tutti fratelli che trovano riposo dopo la fatica, la gloria dopo il martirio, la gioia dopo i dispiaceri e le difficoltà. Quella moltitudine è composta da tutti i "figli di Dio", essa è la famiglia dei santi. Essi non sono uomini "importanti" e valorosi, ma i chiamati da Dio a far parte del suo popolo.
Questo principio ci viene ribadito nella seconda lettura ancora da san Giovanni che ci preannuncia il destino di gloria destinato agli eletti: "noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è". Il testo ci ricorda la nostra identità di "figli di Dio". È un annuncio di speranza per noi che siamo in cammino verso la santità. Essere figli di Dio, infatti, vuol dire essere tra coloro che "sono stati segnati con il sigillo" dell'Amore del Padre e che fanno di questo Amore la loro beatitudine, cioè la fonte della loro gioia già qui in terra.
Nel brano di Vangelo troviamo il bellissimo brano delle beatitudini che è l'icona di Gesù, la sintesi del suo insegnamento e della sua opera, un autoritratto di Gesù e anche un ritratto di come dobbiamo essere noi. Maria potrà dire: mi chiameranno beata.
" Beati..."; è la nostra vocazione; una vocazione che, sicuramente abbiamo visto realizzata in tante persone, che hanno fatto parte della nostra vita, della nostra piccola storia personale, o che sono ancora presenti in essa: persone che ci mostrano concretamente la via da percorrere, persone che ci incoraggiano e ci aiutano, con la loro testimonianza, a camminare sulla via di una santità quotidiana, seria e generosa. I santi ci sono stati, e sono numerosi; ma, i Santi ci sono ancora; abbiamo solo bisogno di imparare a riconoscerli. Sono le persone che si sforzano di vivere le beatitudini evangeliche, sono: i poveri in spirito, coloro che si comportano e che parlano con amore, coloro che agiscono con misericordia e con pietà, coloro che promuovono la pace e non la discordia, la comunione e non la divisione, coloro che sono affamati e assetati di giustizia. Sono le persone che per questo loro modo di agire, di pensare e di vivere sono disposti a patire oltraggi, sofferenze e persecuzioni. Queste persone buone sono una presenza silenziosa. Spesso non sono conosciuti, perché non fanno notizia sui giornali, ma sono tanti.
È questa la speranza che ci deve trasmettere la festa di oggi, non il sedersi a pensare con nostalgia a chi non è più con noi, ma la gioia di vivere in famiglia e nella società quel programma di santità che ci ha donato Gesù, confidando nelle parole che ci ha lasciato san Giovanni: "Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro".




2 NOVEMBRE Commemorazione di tutti i fedeli defunti
La commemorazione dei fedeli defunti appare già nel secolo IX, in continuità con l’uso monastico del secolo VII di consacrare un giorno completo alla preghiera per tutti i defunti.
Amalario, nel secolo IX, poneva già la memoria di tutti i defunti successivamente a quelli dei santi che erano già in cielo. E’ solo con l’abate benedettino Sant’Odilone di Cluny che questa data del 2 novembre fu dedicata alla commemorazione di tutti i fedeli defunti, per i quali già sant’Agostino lodava la consuetudine di pregare anche al di fuori dei loro anniversari, proprio perché non fossero trascurati quelli senza suffragio.

La Chiesa è stata sempre particolarmente fedele al ricordo dei defunti. Nella professione di fede del cristiano noi affermiamo: “Credo nella santa Chiesa cattolica, nella comunione dei Santi…”. Per “comunione dei santi” la Chiesa intende l’insieme e la vita d’assieme di tutti i credenti in Cristo, sia quelli che operano ancora sulla terra , sia quelli che vivono nell’altra vita in Paradiso ed in Purgatorio. In questa vita d’assieme la Chiesa vede e vuole il fluire della Grazia, lo scambio dell’aiuto reciproco, l’unità della fede, la realizzazione dell’amore. Dalla comunione dei santi nasce l’interscambio di aiuto reciproco tra i credenti in cammino sulla terra i i credenti viventi nell’aldilà, sia nel Purgatorio che nel Paradiso. La Chiesa, inoltre, in nome della stessa figliolanza di Dio e, quindi, fratellanza in Gesù Cristo, favorisce questi rapporti e stabilisce anche dei momenti forti durante l’anno liturgico e nei riti religiosi quotidiani.
Il 2 Novembre è il giorno che la Chiesa dedica alla commemorazione dei defunti, che dal popolo viene chiamato semplicemente anche “festa dei defunti”. Ma anche nella messa quotidiana, sempre riserva un piccolo spazio, detto “memento, Domine…”, che vuol dire “ricordati, Signore…” e propone preghiere universali di suffragio alle anime di tutti i defunti in Purgatorio. La Chiesa, infatti, con i suoi figli è sempre madre e vuole sentirli tutti presenti in un unico abbraccio. Pertanto prega per i morti, come per i vivi, perché anch’essi sono vivi nel Signore. Per questo possiamo dire che l’amore materno della Chiesa è più forte della morte.
La commemorazione dei defunti ebbe origine in Francia all’inizio del decimo secolo.
Nel convento di Cluny viveva un santo monaco, l’abate Odilone, che era molto devoto delle anime del Purgatorio, al punto che tutte le sue preghiere, sofferenze, penitenze, mortificazioni e messe venivano applicate per la loro liberazione dal purgatorio. Si dice che uno dei suoi confratelli, di ritorno dalla Terra Santa, gli raccontò di essere stato scaraventato da una tempesta sulla costa della Sicilia; lì incontrò un eremita, il quale gli raccontò che spesso aveva udito le grida e le voci dolenti delle anime purganti provenienti da una grotta insieme a quelle dei demoni che gridavano contro lui, l’abate Odilone.
Costui, all’udire queste parole, ordinò a tutti i monaci del suo Ordine cluniacense di fissare il 2 Novembre come giorno solenne per la commemorazione dei defunti. Era l’anno 928 d. C. Da allora, quindi, ogni anno la “festa” dei morti viene celebrata in questo giorno. Da allora quel giorno rappresenta per tutti una sosta nella vita per ricordare con una certa nostalgia il passato, vissuto con i nostri cari che il tempo e la morte han portato via, il bene che coloro che ci hanno preceduti sulla terra hanno lasciato all’umanità, e il loro contributo all’aumento della fede, della speranza, della carità e della grazia nella chiesa. Il 2 Novembre, poi, ci riporta alla realtà delle cose richiamando la nostra attenzione sulla caducità della vita. Questo pensiero richiama il fluire del tempo intorno a noi e in noi.
Il tempo va via per sempre. Non ritornerà mai più. Resta il frutto maturato in quel tempo: quel che abbiamo seminiamo in quel tempo produce frutto. Se si è seminato vento si raccoglierà tempesta, recita il proverbio antico.

Tutta passa. Giorno dopo giorno il tempo va via. Passo dopo passo il cammino si affatica sempre più. Atto dopo atto il logorio delle forze fisiche che invecchiano si fa sempre più sentire. Passano le gioie e passano pure i dolori. Poi passeremo anche noi; e finiranno su questa terra anche i nostri giorni. Il richiamo alla realtà della nostra morte ci invita, pure, a dare importanza alle cose essenziali, ai valori perenni e universali, che elevano lo spirito e resistono al tempo. “Accumulate un tesoro nel cielo, dove né tignuola e né ladro possono arrivare”, consiglia Gesù Cristo ai suoi discepoli.
Se tutto passa, l’amore di Dio resta. Il pensiero ritorna a noi. La certezza della morte deve farci riflettere, affinché possiamo essere pronti all’incontro con essa senza alcuna paura.
La vita è un cammino che comporta il passaggio da una condizione all’altra, si passa dall’infanzia alla fanciullezza, dalla fanciullezza alla giovinezza, alla maturità, alla vecchiaia e dalla vecchiaia all’eternità attraverso la morte. Per questo, vista nella luce di Dio la morte diventa o dovrebbe diventare un dolce incontro, non un precipitare nel nulla, ma il contemporaneo chiudersi e aprirsi di una porta: la terra e il cielo si incontrano su quella porta. Del resto il pensiero della morte ritorna ogni volta che ci rivolgiamo alla Madonna con la preghiera del Rosario: “Santa Maria, madre di Dio prega per noi, adesso e nell’ora della nostra morte”. Si è detto che la morte sia la prova più dura della vita, ma non è vero.
E’ l’unica cosa che tutti sanno di dovere affrontare! Vista nella luce di Dio la morte diventa un dolce incontro, non un tramonto, ma una bellissima alba annunciatrice della vita eterna con Dio insieme agli angeli e ai santi che ci hanno preceduto in terra. (tratto da una riflessione di Don Marcello Stanzione )